I SERVIZI SPECIALI DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA



A PONTI SUL MINCIO ALZABANDIERA IN MEMORIA DEI CADUTI DEI “SERVIZI SPECIALI”
 
 
    Quest'anno, nel corso del tradizionale alzabandiera dedicato ai commilitoni dei Servizi Speciali, il camerata Giarnetto Bordin ha riservato una sorpresa alle ausiliarie della R.S.I.: il suo discorso commemorativo è stato intieramente dedicato a quel Gruppo di agenti speciali composto da donne. Ha detto, fra l'altro:
 
    Proporzionalmente al limitato numero degli agenti segreti, furono molto numerose, spesso poco più che adolescenti, le italiane che si offersero di compiere pericolose e delicate missioni in territorio nemico. Provenivano sia da reparti del Servizio Ausiliario Femminile che da altre organizzazioni della R.S.I.
    Oggi vorrei citare quelle che fecero parte di quel -gruppo speciale autonomo che andava sotto il nome di copertura "Dottor De Santis- Allevamento Volpi Argentate". Vorrei citarle. Secondo i dati in nostro possesso, una per una, nominativamente, scusandomi con le camerate di cui non si conosce il nome. Desidero anzitutto precisare che debbono considerarsi tutte "Ausiliarie", a pieno titolo, anche quelle che non provenivano dai ruoli del Servizio Ausiliario Femminile ma, come ho detto, da altri settori della R.S.I.
    Del Gruppo "Allevamento Volpi Argentate", fecero dunque parte:
    La Sottotenente Mulatto Anna, la Maresciallo Vinciguerra Maria, la Sergente Maggiore Di Mato Anna e le Ausiliarie, Spera Olga di anni 50, Chechi Fernanda di anni 22, Barocci Adriana. Boni Tea e De Brentis Anna Maria, di anni 20, Braldi Giovanna di 19 anni, Ansaloni Amelia di 18 anni. 
    Nonché le Giovanissime Carla Costa e Carla Saglietti di soli 17 anni. Quest’ultima oggi purtroppo non è potuta venire, sicuramente impedita da cause di forza maggiore e a Lei rivolgiamo un cameratesco saluto.
    Molte di queste ragazze durante le missioni, come accadde anche alla nostra Carla Saggiati, vennero catturate, imprigionate, sottoposte a pesanti interrogatori e condannate a dure pene detentive, quando non anche a morte come avvenne per Fernanda Chechi, che fortunatamente ebbe poi la pena tramutata in lunghi anni di carcere. Carla Costa è purtroppo prematuramente scomparsa qualche anno fa (che per la minore età non potè essere condannata alla fucilazione) divenne per tutti noi un simbolo, e fu considerata uno dei migliori agenti dei Servizi Speciali, per abilità, intelligenza e coraggio. Catturata dopo alcune missioni venne processata da un Tribunale Militare Alleato che le inferse una dura condanna. L’avvocato inglese (Felding) che durante il processo presso la Corte Marziale ne curò la difesa, ammirato per il suo coraggioso comportamento, tornò in Italia negli anni '50 per nuovamente incontrarla e riconfermarle tutta la sua ammirazione e la sua stima.
    Non fece parte delle "Volpi Argentate", ma non possiamo dimenticare tra le appartenenti ai Servizi Speciali l’Ausiliaria Franca Barbieri, di 21 anni, ragazza di particolare coraggio e bellezza. Aggregata ad uno speciale Reparto di Informazioni che aveva sede in Val d'Aosta, alla metà di luglio del 1944 le venne affidata la pericolosa missione di scoprire e individuare la dislocazione delle basi partigiane in quella valle.
    Sospettata di essere un’informatrice, venne arrestata e tradotta presso il Comando di "Maser", capo delle bande autonomiste della Vallata. Sottoposta a stringenti interrogatori riuscì a non tradirsi, ma cadde nel tranello tesogli da un infiltrato che si finse di simpatie fasciste. Dopo alcuni contatti con costui gli affidò due messaggi da far recapitare al Capo della Provincia di Aosta, messaggi nei quali era indicata la dislocazione delle sedi dei comandi partigiani. Tradita nella sua fiducia e definitivamente scoperta, un "tribunale" partigiano la condannò a morte il 24 luglio 1944.
    Il giorno seguente, condotti davanti al plotone d'esecuzione, i partigiani che lo componevano, ritenendo ingiusta la sentenza e commossi ed ammirati dal coraggio che Franca Barbier dimostrava, si rifiutarono di eseguire l'ordine di sparare. Il comandante del plotone, un ex maresciallo dell’Esercito, meglio definirlo un killer - la fulminò freddamente con un colpo alla nuca. Alla sua memoria, per ordine di Mussolini venne conferita la medaglia d'oro al valor militare.
 
 
NUOVO FRONTE N. 172. Marzo 1997 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
 
 
FRANCA BARBIER AUSILIARIA. SERVIZI SEGRETI DELLA RSI. MEDAGLIA D’ORO. LA LETTERA SCRITTA PRIMA DELLA FUCILAZIONE.
 
 
   Alla memoria dell'eroica Ausiliaria è stata decretata la Medaglia d'Oro, con la seguente motivazione:
   «Franca Barbier: catturata dai partigiani manteneva un contegno deciso, rifiutando di entrare a far parte della banda e riaffermando la sua intransigente fedeltà all'Idea.
   Condannata a morte dal tribunale dei fuorilegge, le fu promessa la vita se avesse rinunziato ai principi suoi. Rimasta ferma nella sua fede e portata davanti al plotone di esecuzione, ebbe la forza di gridare: - Viva l'Italia! Viva il Duce! - ordinando il fuoco. Fu uccisa dal capo con un colpo alla nuca. Fulgido esempio di volontaria, la sua morte è fonte di luce».
   La Salma viene rintracciata solo nell'ottobre del '46. Oggi riposa nella tomba di famiglia, accanto al fratellino Franco, morto a pochi anni. Ecco la lettera scritta alla madre...
 
24-7-44- XXII
   Mamma mia adorata,
   purtroppo è giunta la mia ultima ora. E’ stata decisa la mia fucilazione che sarà eseguita domani, 25 luglio. Sii calma e rassegnata a questa sorte che non è certo quella che avevo sognato. Non mi è neppure concesso di riabbracciarti ancora una volta. Questo è il mio unico, immenso dolore. Il mio pensiero sarà fino all'ultimo rivolto a te e a Mirko. Digli che compia sempre il suo dovere di soldato e che si ricordi sempre di me. Io il mio dovere non ho potuto compierlo ed ho fatto soltanto sciocchezze, ma muoio per la nostra Causa e questo mi consola.
   E' terribile pensare che domani non sarò più; ancora non mi riesce di capacitarmi. Non chiedo di essere vendicata, non ne vale la pena, ma vorrei che la mia morte servisse di esempio a tutti quelli che si fanno chiamare fascisti e che per la nostra Causa non sanno che sacrificare parole.
   Mi auguro che papà possa ritornare presso di te e che anche Mirko non ti venga a mancare. Vorrei dirti ancora tante cose, ma tu puoi ben immaginare il mio stato d'animo e come mi riesca difficile riunire i pensieri e le idee. Ricordami a tutti quanti mi sono stati vicini. Scrivi anche ad Adolfo, che mi attendeva proprio oggi da lui. La mia roba ti verrà recapitata ad Aosta. Io sarò sepolta qui, perché neppure il mio corpo vogliono restituire. Mamma, mia piccola Mucci adorata, non ti vedrò più, mai più e neppure il conforto di una tua ultima parola, né della tua immagine. Ho presso di me una piccola fotografia di Mirko: essa mi darà il coraggio di affrontare il passo estremo, la terrò con me.
   Addio mamma mia, cara povera Mucci; addio Mirko mio. Fa sempre innanzitutto il tuo dovere di soldato e di italiano. Vivete felici quando la felicità sarà riconcessa agli uomini e non crucciatevi tanto per me; io non ho sofferto in questa prigionia e domani tutto sarà finito per sempre.
   Della mia roba lascio te, Mucci, arbitra di decidere. Vorrei che la mia piccola fede la portassi sempre tu per mio ricordo. Salutami Vittorio. A lui mi rivolgo perché in certo qual modo mi sostituisca presso di te e ti assista in questo momento tragico per noi Addio per sempre, Mucci! Franca
 
 
LETTERE DEI CADUTI DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA L’Ultima Crociata Editrice. 1990. Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della RSI (Indirizzo e telefono: vedi> EDITORI)
 

CARLA, “VOLPE ARGENTATA” CON KATIA, ALBA, GIANNA, MIRELLA
 
 
FUGA PER ARRUOLARSI
 
     Mi iscrissi alle Squadre giovanili Onore e Combattimento (Federazione di Roma) per il corso di infermiera. Ma non ero ancora soddisfatta: sognavo di più volevo di più!... la Patria muore... Il mio pensiero dominante era quello di poter andare al fronte.
    Chiedevo a tutti, interrogavo tutti... e fu proprio in Federazione che sentii parlare di "un Colonnello che arruolava anche donne"... "E dove sta, questo Colonnello?". "Non so di preciso, ma mi hanno detto che è in Piazza Colonna, al Palazzo della Stampa".
    Quando mi si disse di passare, il Colonnello era in piedi vicino alla finestra e mi parve di un'imponenza statuaria. Mi chiese burbero cosa ero andata a fare ed interruppe il torrente delle mie parole con una sferzata quasi ironica: "Ma qui si muore, lo sai? Si sedette dietro la scrivania e disse che il suo era un Reparto Speciale, che anche le donne erano tenute alla più rigida disciplina militare e che anche loro affrontavano la bella morte sul campo e la brutta morte davanti ad un plotone d'esecuzione: giacché , per noi la prigionia non è mai un sistema per riportare la buccia a casa, per noi la prigionia è il principio della fine. Sarai processata, condannata a morte e fucilata nello spazio di trenta giorni. Ma puoi essere fiera: sarai fucilata al petto. E' la morte dei soldati".
    La selezione era rigorosa: occorrevano volontari di sicura fede, di volontà tenace e di un coraggio cosciente del pericolo, perché quei volontari avrebbero portato la guerra, la loro guerra, nel territorio occupato dal nemico.
    Quello del Colonnello De Santis era infatti un Reparto Speciale della GNR e dell'Esercito. In RSI, i Reparti Speciali hanno avuto una particolare importanza e un notevole sviluppo perché, a causa dell'insufficienza di mezzi -specie per quanto riguarda l'aviazione- si fece sentire la necessità di sopperire alla penuria di materiale meccanico con mezzi umani. E mentre il nemico inviava ovunque e senza tregua i suoi aerei da ricognizione e da bombardamento, l'Esercito Repubblicano, povero di mezzi e ricco di valore, inviava i suoi informatori, i suoi guastatori, i suoi sabotatori: Legionari che volontariamente e coscientemente offrivano sé stessi per una missione spesso senza ritorno.
    Per le missioni da svolgersi lungo la linea del fuoco e nelle immediate retrovie nemiche, oppure quando si trattava di un gruppo e non di un solo sabotatore o ricognitore, gli Agenti Speciali indossavano la regolare divisa.
    Per le missioni lontano dal fronte e nell'interno del territorio invaso vestivano necessariamente in borghese, ma avevano in tasca un autentico documento di riconoscimento. Il soldo era di mille lire al mese.
    Traversavano le linee in qualsiasi ora del giorno. Erano decisi a tutto: vivevano in continuo pericolo di vita: cadendo prigionieri, dichiaravano la loro fede e si chiudevano poi in un ostinato silenzio; né minacce né lusinghe né torture hanno potuto strappare loro nomi di altri Volontari.
    Processati e condannati a morte, andavano al supplizio come se andassero verso il trionfo. Chiedevano di non essere bendati e morivano gridando Viva l'Italia.
    I migliori di noi sono caduti. Noi superstiti abbiamo sfiorato la morte più volte (quella sul campo e quella al palo). Non ci siamo mai abbassati a rinnegare alcunché nemmeno davanti ai Tribunali che, dovevano condannarci. Abbiamo passato anni nelle patrie galere, con condanne che andavano da 10 anni all'ergastolo. Se non siamo morti e se siamo già liberi, non dobbiamo ringraziare nessuno, perché nulla abbiamo chiesto a nessuno. Se domani la Patria ci chiedesse ancora di buttare la nostra vita allo sbaraglio, perché un invasore strapotente calpesta il suolo italiano e perché l'Italia non ha mezzi sufficienti per resistere, agiremmo come abbiamo agito, certi di non mancare alle leggi della lealtà e dell'onore: non siamo pentiti.
    Al Comando l'atmosfera si faceva sempre più rovente. Tornavano i primi Volontari da Cassino, da Anzio, da Nettuno. Raccontavano con una semplicità sconcertante le più straordinarie avventure e le reclute mordevano i freni. Chiesi al Comandante di arruolarmi definitivamente. Mi rivolse alcune domande di carattere personale: dovetti dire che ero figlia unica e che i miei non volevano lasciarmi partire. "Quanti anni hai?". "Diciassette". "Non posso prendermi la responsabilità di arruolare una minorenne contro la volontà dei suoi. Ottieni il permesso e poi ne riparleremo". Fu irremovibile ed io vedevo crollare tutte le mie speranze. I miei si insospettirono e cominciarono a sorvegliare ogni mio movimento. Scappai. Era la sera del 2 giugno 1944: il Comandante mi diede una divisa, ma volle avvertire la mia famiglia. Riuscì ad avere la comunicazione a notte inoltrata: so che tentò di convincere mia madre, che dall'altra parte dei filo piangeva: il Comandante promise di rimandarmi a casa.
    La mattina seguente, quando ci fu data la sveglia, il Colonnello era già chiuso nell'ufficio: distrusse parte dei documenti e messo il resto in una borsa diede l'ordine dello sgombero. Ci trasferimmo alla Caserma Ferdinando di Savoia, vicino alla Stazione Termini.
    Era la fine. Passammo la notte dal 3 al 4 fuori Caserma pronti per la partenza. Roma, nel suo muto spavento sembrava accorgersi solo allora della guerra. Non una voce, non una luce: per via Nazionale lo scalpiccìo dei cavalli della colonna che trasportava verso Nord i feriti. Al mattino del 4, in Caserma e in ordine di marcia. Aerei nemici gettavano manifestini: "Italiani, sabotate l'esercito fascista in fuga...... Ma nella nostra ritirata nulla aveva l'aspetto di una fuga."
    Giunse il Comandante: "Dovevamo partire con un camion e tre macchine: ci stringeremo perché due delle macchine sono introvabili: qualcuno ha avuto paura. Resti pure". Mandò avanti con Katia e le ragazze la macchina rimasta. Fece caricare sul camion viveri per alcuni giorni e vi fece salire gli uomini. Si rivolse a me e mi esortò a tornare in famiglia, mantenendo così la promessa fatta a mia madre. Diede l'ordine di partire e salì in cabina accanto all'autista. Fu un attimo: il camion era già in moto, mi aggrappai alla sponda posteriore e saltai dentro. I Camerati mi fecero posto e mi misero tra le mani una rivoltella: "Se noi spariamo, spara anche tu devi premere il grilletto". Il Comandante non si era accorto di nulla. Percorremmo via Nazionale, passammo per piazza Venezia ed istintivamente gettammo lo sguardo al balcone. Voltammo per il Corso e raggiunto Ponte Milvio, prendemmo la Statale n. 3, Flaminia. Roma nel giro di poche ore sarebbe diventata bivacco di truppe di colore. Raggiungemmo Milano il 9 giugno, stabilendoci provvisoriamente nella caserma della già 2411 Legione MVSN in via Vincenzo Monti. Vi fu la cerimonia del giuramento dei nuovi arruolati: tesi il braccio verso il Tricolore e pronunciai le parole di rito  "Nel nome di Dio e dell'Italia, giuro ... ".
    Per accordi tra il Comandante e il Capo del Reparto tedesco Kora di Viale Monza seguimmo presso tale Comando il corso d'istruzione su uomini e mezzi militari alleati. Seguii due turni contemporaneamente, un giorno uno e un giorno l'altro, uno per l'Esercito e uno per l'aeronautica (non seguii le lezioni per la Marina) perché ero già stata assegnata ad un settore interno). Il corso si proponeva di metterci in grado di riconoscere reparti e dispositivo nemici. L'istruzione verteva dalle notizie più semplici (distinzione di gradi e di unità) sino a quelle più complesse riguardanti i mezzi più perfezionati. Terminai il corso verso la fine di luglio. 
  
MISSIONE DI FERRAGOSTO
 
    La sera del 6 agosto ero di guardia. Arrivò Gianna "Il Comandante mi ha mandato a sostituirti. Ti vuole in ufficio". "Partirai stanotte -esordì il Colonnello. Sei destinata ad un settore tenuto dalle truppe tedesche: andrai a ritirare oggi la parola d'ordine e il fazzoletto che serviranno a farti riconoscere e che ti daranno diritto al loro aiuto: ti accompagneranno sino in vista del nemico. Missione di prima linea: Firenze e dintorni".
    "La città resiste ancora ma il nemico è già penetrato nella zona di qua d'Arno. Hai avuto istruzione e addestramento: sai cosa devi fare e quali sono i nostri scopi.-gira, osserva, annota mentalmente truppe, armi, spostamenti nemici. Ti tratterrai tre giorni e rientrerai. Buona o cattiva che sia la tua fortuna, comportati bene".
    Ritirai la parola d'ordine: Gero 106, una parola di nessun significato, comune a tutti i Reparti in collegamento con quel Comando tedesco, seguita da un numero che distingueva gli Agenti.
    Avrei potuto dare la parola d'ordine soltanto ad un ufficiale: per evitare eventuali equivoci con i soldati mi venne consegnato un insospettabile fazzoletto bianco con orlo a giorno contenente un inchiostro simpatico. Scesi verso Firenze accompagnata da un solo soldato: la macchina non poteva proseguire. Montammo in motocicletta e, saltando da una buca all'altra, giungemmo a Villa Palmieri alle porte di Firenze. La maggioranza dei soldati era sistemata nelle cantine. Un capitano indicò un punto della carta: "Qui c'è un ponte -mi spiegò- l'estrema punta tenuta ancora dai nostri soldati. Il nemico tenta una manovra aggirante, ha già occupato Campo di Marte: i nostri, se non vogliono rimanere accerchiati dovranno presto lasciare la posizione. E' già tutto minato".
    "Vi accompagneremo fino al ponte e quando avremo chiuso i cancelli alle vostre spalle sarete in territorio ostile. Davanti a voi si apre un largo viale alberato, Viale Regina Vittoria, che sbocca in Piazza Cavour. In via Cavour troverete il primo comando nemico".
    Il 14 mi diedero per guida una Camicia Bruna. Scendemmo verso la città. Le strade erano deserte, le case abbandonate. Gli scarponi chiodati della mia guida risuonavano sinistramente. Sul ponte una casa semidiroccata serviva di ricovero ai pochi soldati rimasti. Il ponte era sbarrato da una doppia cancellata. Fu scambiata la parola d'ordine. Aperto il primo cancello, venne nuovamente sprangato. Entrammo in casa: un breve corridoio e una parte di quella che era stata una cucina. Un sergente mi assicurò che non avrebbero sparato per darmi il tempo di raggiungere Piazza Cavour. "Voi, comunque, appoggiatevi al muro". Uscimmo insieme, ci avvicinammo al secondo cancello, mi indicò il tratto che avrei dovuto seguire al mio ritorno. “Non dimenticatevene, il ponte è minato". Aprì il cancello, mi diede la mano e... "Buona fortuna, camerata!". Era ancora buio, e mi misi a correre piegate in avanti."Raggiunsi senza incidenti la fine del viale: oltre Piazza Cavour iniziava la zona sotto occupazione. Se avessi potuto raggiungerla, sarei potuta passare inosservata.
    Il cielo si schiariva. Sentivo venire dal centro i primi ansimi della città. Salii lungo il mio muro, mi sollevai e portai i piedi al di sopra e da lassù spiccai un salto, attraversai di corsa la Piazza deserta ed imboccai via Cavour con passo affrettato ma calmo.
    "Correte i fascisti sparano dalle finestre!" L'insperato aiuto di Camerati che non conoscevo mi aprì la strada verso il Duomo e mi diede la consolante sensazione di non essere poi tanto sola in quella città invasa ...
    A mezzogiorno gli americani avevano terminato il ponte militare gettato sui piloni dell'ex-ponte Santa Trinita. Per i civili niente. Anch'io passai più volte avanti e indietro, saltando nell'acqua tra le macerie.
    Girai tutto il giorno per Firenze: verso sera ero in Piazza Santa Maria Novella: un partigiano davanti alla bella Basilica aveva attirato un gruppetto di persone. Mi avvicinai anch'io: "Li abbiamo ammazzati subito, tutti e dieci... Qui, vedete?". Ed indicava sul selciato larghe tracce di sangue.
    Voltai a caso in Via degli Orti Oricellari. Al numero 25 una scritta bilingue, che proibiva l'ingresso ai militari, attirò la mia attenzione. "E' una casa di suore... fra di loro non desterò sospetti..." e allungai la mano al campanello. Fui accompagnata dalla Superiora, la quale, ascoltata cortesemente la mia richiesta chiese allarmata. "Non sarete mica fascista, vero?". "No, certamente" risposi con sforzo. "Sapete, non per cattiveria ma di fascisti non ne possiamo assolutamente alloggiare".
    La mattina di Ferragosto ripresi il mio giro: un gruppo di fascisti era asserragliato in Stazione. Al pomeriggio vi fu l'ordine alleato di consegna delle armi. A Campo di Marte, il 16, notai grandi rinforzi di artiglieria. Avevo mentalmente Notato ogni particolare di carattere bellico secondo le istruzioni ricevute: la missione era ormai al termine e la sera del 16 verso il tramonto presi la strada che doveva riportarmi al ponte. Arrivai in piazza Cavour senza che nessuno mi dicesse nulla. Sulla mia destra, dall'altra parte, si apriva viale Regina Vittoria, la terra di nessuno. "Ehi voi! dove andate?". Non mi voltai affatto, scattai come una molla. Mi buttai al centro della strada ed attaccai la corsa più veloce di tutta la mia vita. Sentii il fischio acuto di qualcosa che mi raggiunse e mi sorpassò: il gruppo alle mie spalle aveva aperto il fuoco dando così l'allarme. Gridavano e sparavano all'impazzata prendendomi di mira, ma nessuno aveva il coraggio di venirmi a fermare nel mezzo della strada. La mitragliatrice sul ponte, anche se silenziosa, appoggiava ugualmente il mio ritorno.
    Divoravo la strada inseguita da quel rabbioso tiro a segno, regolando la corsa sul ritmo di quella musica forsennata. Mi mancava poco ormai... ancora due traverse, ancora una... I tedeschi si erano affacciati all'unica finestra che dava sul viale per seguire la scena... li distinguevo già bene... Giunsi con il fiato grosso alla fine del viale, attraversai senza rallentare lo spazio davanti al cancello chiuso, mi arrampicai come una scimmia sulle sbarre dello stesso, puntai le braccia, saltai dall'altra parte.
    Ricordai l'ultima raccomandazione del sergente ("il ponte è minato"). Tenni la sinistra, rasentando poi verso destra il muro della casa, girai l'angolo e piombai come un bolide in mezzo ai soldati che mi aspettavano. Ero salva!
    Mi accompagnarono a Villa Palmieri e di là verso Milano, ospite dei Tedeschi presso Bologna, attendevo la macchina del mio comando, ero in giardino a godermi il fresco, quando vennero a chiamarmi: avrei rivisto il Colonnello e i Camerati: finalmente!
 
 
Carla Costa, la Volpe argentata.
 
 
PROCESSO A FIRENZE
 
    Divenni la “Signorina Non So”. Il magg. Spingarn ordinò il digiuno: “sino a quando non avrete parlato”. All'ora di pranzo, apparecchiarono il tavolino davanti a me per una delle due ausiliarie americane che dormivano a turno nella mia stanza. Questa, non appena seppe la verità, arrossì violentemente, buttò indietro la sedia uscendo quasi di corsa. Mi spiegarono che la signorina non conosceva gli ordini e che comunque “non si prestava al gioco”. Fu il magg. Spingarn in persona che, per stuzzicare maggiormente il mio appetito, divorò sotto i miei occhi un fumante piatto di spaghetti...
    Dopo l'ordine del digiuno arrivò quello della veglia: dovevo rimanere seduta senza appoggiarmi al tavolino, senza dormire: dovevo “meditare e convertirmi, dovevo parlare”.
    La sera del 27 ottobre (era già molto tardi) entrò nella stanza il maggiore Spingarn: “Credete in Dio?” “Sì”. Il maggiore trovò da obiettare qualcosa (mi aveva già detto di essere ebreo, in ossequio non so se alla verità o se ad un particolare sistema di pseudo-minaccia). “Desiderate un confessore particolare?” “No, per me è lo stesso”. Bene, vi manderemo il parroco di Tavarnelle. Domattina alle 6 vi fucileremo. Così festeggerete degnamente il 23' anno dell'Era Fascista». Risposi: “Onoratissima”. Il parroco non venne mai. La mattina dopo arrivò invece il maggiore con il seguito, ostentando per l'occasione una magnifica grinta scura. Credevo fosse giunta l'ora. Spingarn annunciò: “Per ordine del Comandante Supremo non vi dovremo fucilare finché non avrete parlato... Diteci i nomi dei vostri complici ... parlate... la guerra è perduta per voi ... perché continuare a combattere?... noi sappiamo tutto; noi siamo i padroni del vostro Paese... Il Fascismo è morto... perché sacrificarvi inutilmente? ...” Non avevo niente da dire e quindi rimasi in silenzio domandandomi perché mai mi guardassero tutti a quel modo senza giungere alla conclusione. Finalmente Spingarn chiese: “Non dite almeno qualcosa del fatto che vi lasciamo ancora un po' di vita?” Ah! ora avevo capito! aspettavano forse i miei commossi ringraziamenti. Inscenarono poi una commedia per comunicarmi che a . . Il 9 novembre dalle Carceri di Santa Verdiana in Firenze fui tradotta alle Mantellate di Roma. Gli ordini furono severissimi: segregazione assoluta e pane ed acqua sino a nuovo ordine.
    Saltavano così il vitto passato dagli alleati ai loro prigionieri in Roma, il supplemento carcerario per i minorenni e l'unica minestra regolamentare delle ore 12. ...E gli interrogatori continuavano. Il 25 fui nuovamente trasferita a Firenze: ogni traduzione mi costò sempre un digiuno di 30-36 ore.
    Il ritmo degli interrogatori si andava ormai allentando. A fine novembre avvenne l'ultimo, prima del processo: fu l'interrogatorio più scabroso. Fu il finale estremo di tutta la lunga serie: un confronto. Questa volta l'americano non fece la topica degli avvertimenti (fu un caso o fu il frutto delle lezioni passate?) ma preparò la scena con accortezza. Entrando nel parlatorio di Santa Verdiana ebbi davanti a me una Camerata e l'ufficiale avversario. Sentii qualcosa stringermi lo stomaco: davanti a me era Mirella, l'impaziente minorenne che avevo conosciuto negli ultimi giorni della mia permanenza a Milano e che con tanto entusiasmo si era preparata alla lotta... Ci scambiammo un rapido sguardo superficiale.. Mirella non batté ciglio ed io sedetti rispondendo tranquillamente al saluto del maggiore, che non mi aveva tolto gli occhi di dosso nemmeno per un istante. Alla sua esplicita domanda ci osservammo finalmente con l'attenzione di chi cerca tratti noti in un volto sconosciuto... il risultato dell'esame fu nullo: negai di conoscerla e Mirella fece altrettanto nei miei riguardi. Il maggiore strabiliò: in base ai dati in loro possesso dovevamo conoscerci per forza. L'americano, non ci credette. Sbraitò a vuoto per un pezzo: finalmente mi congedò. “Gli italiani hanno la pessima abitudine di dire bugie!!”. Così si chiuse la mia istruttoria. Posso dire di essere stata ben fortunata, come sempre: oggi, quando incontro il Camerata che mi mostra le cicatrici delle bruciature e delle percosse ricevute, mi vergogno di essermela cavata così liscia.
    Alcuni giorni dopo, Mirella ed io ci salutammo attraverso il finestrino della gavetta tagliato nella porta delle nostre celle. Mirella era stata catturata a Bombiana e dopo aver passato la giornata in un comando brasiliano venne trasportata a Porretta Terme. Passò per varie carceri e per i campi di Terni e di Miramare, riacquistando la libertà nel settembre 1946. Verso il 10 dicembre, fui chiamata in parlatorio dal cap. Fielding, avvocato difensore d'ufficio e indispensabile per imbastire un processo, (nessuno di noi aveva mai chiesto niente). Era un irlandese che “oh! non era fascista!... ma ci capiva perfettamente perché, anche lui, ai suoi tempi, aveva fatto pazzie per la indipendenza del suo Paese”. Al processo, iniziatosi il 13 dicembre 1944 presso la Corte Militare Alleata in Firenze (via Cavour, 57) mi difese con tutte le sue forze. Voleva evitarmi di salire sulla pedana dei testimoni». “Voi vi accusate” -mi rimproverava- “Che bisogno avete di dire che siete fascista?” “Cap. Fielding, i fatti si negano, la Fede non si rinnega”. Tentò di farmi passare per pazza. La risposta del medico fu circostanziata ed eloquente: affermò che “l'imputata, arruolatasi volontaria in un esercito stremato dalle gravi perdite subite e dalla defezione dei più, aveva obbedito ad un altissimo sentimento dell'Onore, sentimento che aveva trovato la sua espressione nella dedizione ad un'idea e nella volontà di lotta contro chi aveva invaso il suo Paese”.
    Salii a testimoniare la mia Fede. Il P.M. chiese espressamente “Perché vi siete arruolata? Per denaro o perché eravate fascista?”. Alla mia risposta, il povero cap. Fielding si alzò a mezzo, fece un gesto sconsolato e tornò a sedere.
    Avevo contravvenuto al Proclama n. 1 (Parte II -Art. IV- Sez. I) che contemplava la morte con fucilazione al petto. Lo scopo della difesa era non quello di evitare la reclusione (cosa impossibile) bensì di evitare la pena capitale. Fallito il suo tentativo (quello tendente a farmi ricoverare fra gli alienati), a Fielding non rimase che portare a mia difesa gli argomenti dell'accusa. “è leale, è onesta, ha dichiarato senza esitazioni di essere fascista, di non pentirsi affatto delle decisioni prese e di essere pronta a ricominciare da capo”. “Noi concediamo all’imputata la simpatia e se volete, l’ammirazione che ella merita, ma appunto per questo siamo convinti che l’imputata non vorrà mai cooperare con noi e noi abbiamo il dovere di salvaguardare il nostro esercito. Perciò chiedo la pena di morte» tuonava l'accusa. “Ma il mondo ha bisogno di onesti!” replicava la difesa e “l’imputata è fascista, perchè per lei la Causa del Fascismo si è identificata con quella del suo Paese. Ella non ha mai conosciuto un diverso sistema di vita...(ed ora che lo conosco cosa dovrei essere?)”.
    Ho l'impressione però che il capitano Fielding sia stato, almeno in Firenze, l'unica eccezione alla regola: è noto il caso di un legale che al suo imputato dichiarò: “Prima di essere il vostro avvocato, io sono un americano”. Il cap. Fielding fu più tardi dispensato dall'ufficio: venne a salutarmi in carcere e mi spiegò, sorridendo un po' mesto, “di averne salvati troppi. Ora non mi sarà più possibile...“ Grazie ugualmente cap. Fielding. Il processo terminò il 10 dicembre: fui condannata a venti anni di reclusione.
 
RECLUSIONE MILITARE
 
    Il magg. Spingarn attribuì la mite condanna all'appassionata eloquenza della difesa. Mario, processato prima di me, fu invece condannato a morte e fucilato a Fiesole, Cave di Maiano. Le sue ultime ore al carcere delle Murate furono un esempio per i compagni e questi non l'hanno dimenticato; oggi testimoniano del suo comportamento e ne onorano la memoria. Sono di quell'inverno -e specialmente del periodo susseguente al 1° Gennaio 1945 in cui si ebbe da parte alleata un irrigidimento delle condanne- esempi di eroismo: volò di cella in cella, oltrepassando mura e grate, il racconto circa i due Camerati che, chiamati per l'esecuzione della sentenza capitale, si erano presentati violacei per il freddo, ma sorridenti, in canottiera, calzoncini e zoccoli. Agli americani sbigottiti, avevano spiegato, con il tono più naturale di questo mondo, di aver lasciato gli indumenti ai Camerati rimasti in cella, giacché loro di lì a poco non ne avrebbero avuto bisogno. Andarono al muro cantando e caddero gridando: Viva l'Italia! Tanti altri si immolarono e furono sepolti senza un nome e senza una croce. Al mio ritorno a Santa Verdiana capii la segregazione che mi aveva riservato la Corte Militare: niente leggere, niente posta, niente lavorare... “fino a nuovo ordine”.
    Rifiutai il ricorso in appello (su domanda da presentarsi entro 30 giorni dalla sentenza) e quindi, dopo tale termine, la condanna passò in giudicato.
    Dopo la fine della guerra, il 25 giugno 1945, fui tradotta per l'esecuzione della pena a Perugia con le due Camerate con le quali in Firenze avevo tentato la fuga: una, Daga, studentessa in medicina, caduta prigioniera ed internata in un campo di concentramento, ne era fuggita, raggiungendo nuovamente le linee, quando all'ultimo momento, per la spiata di un contadino, aveva perso per la seconda volta la libertà: tradotta nelle carceri fiorentine, era stata condannata a morte il 16 gennaio 1945 e solo nel marzo le era stata comunicata la commutazione all'ergastolo. L'altra, Eureka, caduta prigioniera nel novembre 1944, era stata condannata a venti anni nel marzo 1945.
    Ci fu tolta la segregazione e permesso di comunicare con le famiglie. Più tardi, ci raggiunsero nel Penitenziario di Perugia, provenienti da quello di Urbino, tre bolognesi, processate dal Tribunale Militare Alleato di Riccione e condannate ciascuna a dieci anni (due di loro erano state in un primo tempo condannate a morte). Alba, del cui arresto e della cui condanna avevo avuto notizia nel corso della mia seconda missione, era stata assegnata al Penitenziario di Trani (Bari) con una sentenza di 18 anni.
    Sette siamo state le condannate dai Tribunali Alleati in base al Proclama N. 1; un'altra volontaria, proveniente da Milano, fu processata, alla fine della guerra, da un Tribunale Italiano che la condannò a cinque anni, con il condono del 1946; altre furono assolte e internate nei vari campi di concentramento; alcune, non furono mai scoperte.
    Nel giugno del 1946, i giornali scrissero che “i militari condannati da Tribunali Alleati (circa trecento tra uomini e donne) non avrebbero usufruito dell’amnistia italiana”. Quando, nel dicembre 1947, le forze alleate lasciarono l'Italia, i nostri casi divennero di competenza delle Autorità Italiane. Queste ci passarono alle carceri giudiziarie e riaprirono i processi, giacché gli Alleati avevano consegnato soltanto gli estratti delle sentenze e non i verbali delle istruttorie da loro condotte. Risultando a nostro carico azioni militari non contemplate dal Codice italiano, nel 1948 fummo liberati.
 
 
ACTA DELL’ISTITUTO STORICO REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA N. 3. Settembre-Novembre 1996 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

"MIRELLA" VOLPE ARGENTATA Storia di una "ragazza di Mussolini"
Francesco Fatica
 
 
 
 
    Carla Saglietti, classe 1927, era figlia di Franca Fasola, fiduciaria del Gruppo Rionale Fascista "Guglielmo Oberdan’’ a Milano nel 1944.
    Voleva partecipare in prima persona, con tutta la veemenza del suo spirito generoso, alla lotta che vedeva coalizzate contro l’Europa dell’Asse le mercenarie milizie multirazziali degli "Alleati’’.
    Perciò chiese insistentemente alla mamma di aiutarla ad arruolarsi. Questa, fortemente combattuta fra l’istinto materno e l’amor di patria, fu costretta a far tacere gli impulsi che avrebbero voluto difendere la figlia, ancor giovanissima, dai pericoli insidiosi di una guerra sempre più feroce e disumana, che ormai insanguinava atrocemente anche le strade di Milano.
    E quindi condusse la figlia dalla vice comandante del SAF (Servizio Ausiliario Femminile) della Brigata Nera "Aldo Resega’’, tenente Lydia Votta (1), che inviò Carla alla sede di accasermamento e uffici della GNR in Via V. Monti a Milano.
    Qui la giovane ausiliaria fu assegnata a lavori di ufficio come "scrivana’’.
    La cosa non poteva soddisfare il temperamento esuberante di Carla che, pur rendendosi conto di dare un contributo più che valido alla lotta in corso, si sentiva tenuta ai margini ed anelava invece ad operare militarmente, a diretto contatto con il nemico.
Si sentiva depressa, non utilizzata a pieno in quel lavoro di ufficio che non riusciva ad interessarla. Voleva far qualcosa di più esaltante. Perciò non appena una collega, che già militava nei "Servizi Speciali’’, l’avvicinò con le dovute cautele, accettò entusiasticamente di provare a lavorare in quel campo che seduceva la sua immaginazione.
    La camerata le diede l’indirizzo di Villa Hilke, in via Ravizza a Milano, sede operativa del Servizio Segreto G.S.A. (Gruppo Speciale Autonomo) denominato quasi goliardicamente "dottor De Santis, Allevamento volpi argentate’’ (1).
    Dopo un colloquio che chiariva le linee principali del servizio di questo gruppo, il dottor De Santis (al secolo Tommaso David) l’arruolò e le assegnò il nome in codice "Mirella’’, dato che nel reparto c’era già un’altra Carla (Carla Costa).
    Finalmente Carla Saglietti aveva trovato lo scopo che dava un senso pieno alla sua vita e vi si consacrò.
    Il nome in codice "Mirella’’ le dava il crisma della sua missione, si sentiva felice nella sua nuova responsabilità.
    Seguì quindi diligentemente il corso di addestramento specializzato presso il "Kora’’ agli ordini del maggiore tedesco Kurt Krupp. (3).
    Il corso verteva essenzialmente sul riconoscimento, ai fini strategici, delle truppe nemiche attraverso i "totem’’ di reparto e sull’identificazione dei vari mezzi corazzati nonché delle artiglierie. Venivano insegnate inoltre tecniche da seguire secondo la specialità dell’agente e tra l’altro anche tecniche di evasione in caso di cattura.
    Nel novembre 1944 "Mirella’’ era già preparata.
    Venne trasportata a bordo di un camion tedesco verso il fronte. Durante il viaggio nessuno parlò; "Mirella’’ era sola con i suoi pensieri, sempre più emozionata. Si concentrò sulla missione da compiere.
    Si era resa pienamente conto dei pericoli a cui andava incontro, ma era fermamente decisa ad affrontare ogni evenienza. Si domanda come potrebbe superare gli ostacoli della prima linea dello schieramento nemico, ma non vede l’ora di poter provare a sé stessa che ce la farà.
    Si arrampicarono sull’Appennino tra Bologna e Pistoia. L’impazienza dell’attesa le provocava fremiti che non aveva mai provati.
    Finalmente arrivarono a Pietracolora, 820 metri sul livello del mare, un piccolo borgo, casette basse, massimo due piani, arroccato sulla montagna.
    Faceva freddo: "Mirella’’ venne accolta nel modesto fabbricato dove erano accasermati i tedeschi. Le venne offerta una rustica cena e poté riposare un poco, prima di affrontare le fatiche dell’attraversamento delle linee. "Mirella’’ si sforzò, si impose di dormire per essere pronta ad iniziare, nelle migliori condizioni, la missione assegnatale.
    Passò qualche ora. La svegliarono. Un camerata tedesco l’accompagnò per una trentina di metri lungo la strada che scende verso Bombiana in mani nemiche.
    Rimasta sola, si strinse nel suo cappottino, i piedi erano gelati nonostante i calzettoni e gli scarponcini, ma ben presto non avvertì più il freddo. Scendeva automaticamente sforzandosi di vedere attraverso le nebbiolina avanti a sé.
    Vedeva qualche bagliore lontano e udiva il brontolio dei cannoni.
    Sola nella nebbia, tra due sterminati eserciti che si combattevano... e lei proseguiva verso un nemico pronto ad aggredirla con mille tentacoli. Sola. Ma doveva proseguire, voleva vincere tutte le prove che l’aspettavano.
    Ma ecco, l’artiglieria tedesca iniziò un fuoco di copertura per distrarre gli avamposti "alleati’’. Non era più sola.
    Sentiva vicino, però, anche il nemico ed il suo spirito si disponeva alla lotta, si dispiegava in un fervore che accendeva la sua anima e non le faceva sentire il vento gelido che le ghiacciava le guance.
    Giudicò opportuno lasciare la strada per scendere più rapidamente e anche per evitare pattuglie nemiche in perlustrazione. Ascoltava con attenzione spasmodica, analizzando ogni rumore diverso dal rombo dei cannoni e dal fischio leggero del vento tra i rami degli alberi.
    Le parve di distinguere a tratti il fruscio lontano di un torrente nel fondo valle. Doveva essere il torrente Silla, come aveva studiato sulla cartina, un affluente del fiume Reno.
    Non era affatto agevole scendere sul terreno accidentato. Più di una volta stette per cadere. Sagome contorte di alberi emergevano dalla foschia.
    Era ben cosciente delle possibilità di incontrare campi minati. Era un rischio da affrontare senza doversene preoccupare, ogni precauzione sarebbe stata inutile. Le dispiaceva soltanto pensare che non avrebbe potuto portare a termine la sua missione.
    Il suo istinto acuto l’avvertiva della presenza di altri indistinti pericoli; avrebbe voluto procedere con maggiore prudenza, evitare di far udire i suoi passi fra le foglie secche, gli urti degli scarponcini sui rami caduti e sulle pietre sporgenti.
Era già molto affaticata ma non ammetteva indulgenza per il suo fisico; bisognava far presto, molto presto.
Ma improvvisamente ebbe un sussulto, una voce straniera con accento portoghese. Ah! Forse un maledetto brasiliano.
Un nero alto e possente emerse dalla nebbia e le si piantò davanti puntandole il fucile.
"Mirella’’ scattò, raccolse tutte le sue forze, avvertì una forte scarica di adrenalina. In un attimo giudicò la situazione: non c’era nulla da fare, bisognava arrendersi e, caso mai, dopo, tentare la fuga o l’evasione, secondo le istruzioni apprese al corso, sapeva di non poter demordere, sapeva di dover stare ancora all’erta, sempre all’erta, per cogliere ogni occasione.
    Venne portata a Porretta Terme e poi a Scandicci, vicino Firenze. Un lungo viaggio in camionetta in mezzo a nemici armati che la guardavano con curiosità insinuante.
    Mantenne un contegno dignitoso e distaccato.
A Scandicci un ufficiale americano, un italoamericano, il capitano Moretti della Quinta Armata, la interrogò con aria bonaria, quasi cordiale e "Mirella’’ tirò fuori, con la maggiore naturalezza possibile, la storia che avevano preparato al corso di addestramento: voleva raggiungere la nonna bisognosa di aiuto, con tutti i particolari già studiati in maniera adeguata.
Ma il capitano Moretti non la bevve. Traspariva dal suo viso che egli sapeva qualcosa, forse qualcuno lo aveva informato... Poi "Mirella’’ ne ebbe la certezza, conosceva addirittura il suo nome in codice: "Mirella’’!
    L’interrogatorio si fece più duro, sempre più duro.
    "Mirella’’ venne spintonata violentemente, sempre più violentemente, venne sbattuta sul muro, più volte... più volte.
    Le si annebbiò la vista: quasi svenne. Non poteva reagire, non doveva reagire. Ma odiava il nemico, che le si svelava in tutta la sua abiezione. Lo odiava con tutte le sue forze.
    Un italo-americano: un traditore. Uno che ha rinnegato le sue radici e che ora si accanisce contro una piccola ragazza che non può reagire.
    Alla fine il capitano Moretti si stancò e "Mirella’’ fu chiusa a chiave in una cameretta buia.
    Non aveva mangiato, ma non sentiva fame. Era tutta pesta e dolorante, ripeteva a sé stessa che bisognava recuperare tutte le energie possibili per poter lottare senza cedere.
    Fece subito una rapida ispezione della cameretta nella vana ricerca di qualche appiglio che potesse favorire l’evasione.
    Poi si propose di riposare per recuperare le forze.
    La porta si socchiuse, arrivò furtivamente un pietoso militare Usa che le portò una tavoletta di cioccolata e, mentre lei l’addentava, lui le si buttò addosso, brancicandola con le sue manacce che le fanno ribrezzo, nausea, orrore.
"Mirella’’ si divincolò, urlò, tirò calci con i suoi bravi scarponcini, graffiò con le unghie quei viso puzzolente di whisky.
    Nel trambusto arrivò gente e il militare battè in ritirata.
    Arrivarono altri soldati. Sopravvenne l’ineffabile capitano che chiese a "Mirella’’ se era sicura di quanto stava denunciando.     Traspariva dalla sua voce un impercettibile punta di sarcasmo.
    Poi tornò la calma. Ma "Mirella’’ non potè più dormire.
    Era una tecnica di tortura psicologica di cui non era consapevole, ma che la prostrò e le spezzò i nervi. Odiava il nemico ancora di più e si confermò nella giustezza della lotta intrapresa.
    Bisognava resistere. Doveva recuperare le forze: era questo il suo assillo. Voleva dormire, doveva dormire, ma non poteva più.
    Capì che avrebbe dovuto mangiare almeno quella cioccolata, ma le faceva schifo.
    Restò sconvolta fino al mattino e quando finalmente avrebbe voluto dormire la riportarono all’interrogatorio.
    Ancora quell’odioso capitano Moretti che si pavoneggiava nella sua esecrabile divisa: elegante, curate, ben stirata.
"Mirella’’ si irrigidì sulla negativa.
    Allora Moretti la minacciò di fucilazione e "Mirella’’ si sentì stranamente liberata dall’ossessione di quell’interrogatorio. Finalmente era finita. Sia pure con la fucilazione, ma era finita.
La portarono fuori, circondata da divise caki, uomini armati di "Tompson’’; la appoggiarono ad una transenna ed il capitano Moretti si disse molto dispiaciuto della sua prossima fine, e parlava, parlava...
    Aspettava il crollo di "Mirella’’. Ma lei non lo sentiva più; era chiusa nella corazza della sua fede. Si sentiva finalmente libera e fece un ultimo gesto di disprezzo e di odio al suo aguzzino; la sua educazione le impediva di sputargli in faccia; gli fece le boccacce.
    Il capitano restò disorientato, spazientito, non sapeva più cosa fare. Era anche meravigliato dalla saldezza morale di quella che gli appariva come una ragazzina, ma che aveva più forza morale di un uomo.
    Tuttavia la spedì alle carceri di Firenze - Santa Verdiana - tra le detenute comuni.
    E lì, nel parlatoio di Santa Verdiana, avvenne il confronto con Carla Costa, l’altra "volpe argentata’’ che avevano arrestato in missione (4).
    Le due ragazze recitarono benissimo la commedia:
    Non la conosco
    Nemmeno io.
    Durante la permanenza nelle carceri di Firenze subì ancora un tentativo di violenza, ma su questo punto "Mirella’’ non ha mai voluto dare completa testimonianza.
    Malgrado la mancanza di prove certe, gli "Alleati’’ non mollarono. "Mirella’’ non poteva essere incriminata come Carla Costa, ma fu inviata senza preoccuparsi di darne una qualsiasi giustificazione, all’ "R. internee camp’’ di Collescipoli i provincia di Terni ("R’’ sta per "Recalcitrants’’). Era un campo di rieducazione tenuto dagli inglesi con metodi perfidamente persecutori.
A Collescipoli fu raccolta l’élite del fascismo clandestino del Sud ma furono reclusi anche gli agenti speciali della RSI che erano scampati ai campi minati, agli scoppi delle granate, alle fucilazioni.
    Lì "Mirella’’ conobbe la principessa Maria Pignatelli di Cerchiara, arrestata a Napoli al ritorno dalla sua missione in RSI, dove era stata ricevuta dal Duce.
    Recluse in uno dei capannoni della fabbrica di gomma sintetica Pirelli, utilizzati come campo di concentramento, le internate erano sottoposte a vessazioni ed angherie di ogni genere. Come quando un soldato inglese voleva portare a ballare una reclusa di sui si era invaghito: Nicoletta de Terlizzi.
    Essendosi lei sdegnosamente rifiutata, fu uccisa sotto gli occhi delle sue camerate allibite (5).
    Intanto in RSI Anna Bagaggia, una camerata che conosceva la mamma di Carla Saglietti, ascoltanto "Radio Londra’’ per motivi di servizio, apprese che Carla era stata catturata e fucilata. Avvertì la famiglia che ne ebbe un enorme, lancinante dolore.
Perfidi metodi terroristici di Albione per fiaccare il nostro morale.
    Il campo di Collescipoli restò aperto anche dopo la fine della guerra civile Fino al maggio 1946, epoca in cui fu smobilitato.
Molti detenuti furono rimessi in libertà ma i più "recalcitrants’’ furono trasferiti al campo di Riccione-Rimini "Campo Miramare’’, ultimo campo di concentramento inglese rimasto aperto in Italia.
    Tra questi, ovviamente, ci fu anche "Mirella’’.
    Il campo di Riccione era stato un campo di aviazione: era attrezzato solo con tende. La sezione femminile invece era sistemata in un padiglione della ex Colonia Marina della GIL, che era nelle vicinanze, strettamente sorvegliata da sentinelle polacche severissime, zelantissime e sospettosissime, ma non abbastanza da impedire l’evasione della principessa Maria Pignatelli, che non fu più ripresa.
    Intanto da interrogatori, subiti già in precedenza dagli agenti del Servizio Speciale "P.D.M’’, nel dopoguerra era emersa la verità sulla fuga di notizie relative alla identità degli agenti speciali: il badogliano tenente Gaeta (che sia sempre maledetto), si era infiltrato in Repubblica Sociale ed era addirittura riuscito a conquistare la fiducia dei tedeschi. Segnalava al nemico angloamericano i nomi veri ed i nomi in codice degli agenti speciali, missioni, orari e località dei tentativi di passaggio delle linee.
    A guerra finita si gloriava delle sue gesta di spia.
    Così "Mirella’’ e Carla Costa vennero a sapere chi dovevano ringraziare per le loro tribolazioni.
    Ma forse non tutti i mali vennero per nuocere: chissà che fine avrebbero fatto Carla Costa e Carla Saglietti nella primavera di sangue del 1945, che vide tanta ausiliarie bestialmente sacrificate con infame rito barbarico sull’ara della "liberazione’’ ignominiosamente insanguinata.
    Carla Saglietti, invece, alla chiusura del campo di Riccione, nell’estate del 1947 fu restituita alla vita civile.
Ma l’Italia che trovò le fece rimpiangere il campo di concentramento.
 
 
NOTE
(1) cfr G. Pisanò - Gli ultimi in grigioverde - Storia delle Forze Armate della RSI -CDL edizioni - Milano 1995 p. 2319 e p. 2322.
(2) cfr G. Pisanò op. cit. 2365 e 2366 in cui ci dà anche l'elenco completo delle agenti femminili che qui riportiamo: S. Ten. Anna Mulatto, maresciallo Maria Vinciguerra, serg. Magg. Anna Di Mato, ausiliarie Amelia Ansaloni (18 anni), Giovanna Braldi (19 anni), Adriana Barocci, Tea Boni (20 anni), Fernanda Chechi (22 anni), Carla Costa (17 anni), Anna Maria De Brentis (20 anni), Carla Saglietti (17 anni), Olga Spera (50 anni).
Manca l'elenco degli agenti uomini ma sappiamo che uno di loro fu Mario Martinelli, fucilato il 30.1.1945 alle cave di Maiano, Firenze, come riferito da Carla Costa.
La quasi totalità degli agenti venne catturata dal nemico e condannata a morte o a lunghe pene detentive.
(3) cfr G. Pisanò op. cit. pp. 2367-2370. La scuola di addestramento per i servizi speciali, in sigla "Kora" era a Milano in Viale Monza.
(4) vedasi Carla Costa - Servizio Segreto - le mie avventure in difesa della Patria oltre le linee nemiche - Quaderni di Storia Verità - Europa Libreria Editrice, Roma, 1998, pp. 76 e 77.
(5) Lettera della principessa Maria Pignatelli a D. Rousset databile verso la fine del 1949 riportata nel libro La lampada e il Fascio di R. Guarasci, Reggio Calabria, Laruffa Ed., 1987.
(6) Dattiloscritto di Carlo Rivolta, Rho, 1999.
 
 
 NUOVO FRONTE N. 196 Novembre e N. 197 Dicembre 1999 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

DOMUS